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Prima dell’Amuchina: i gioielli profumati come disinfettanti di lusso

Abbiamo assistito in questi giorni nevrotici alla corsa all’Amuchina, allo svuotamento degli scaffali nei supermercati, ai tentativi di produzione home made, alla speculazione sulla vendita a prezzi vertiginosi. Si moltiplicano sul web meme scherzosi che propongono lo scambio di ambitissimi gel disinfettanti con attici in centro storico. Manco fosse oro. Causa inattività sono particolarmente suscettibile a immaginifici voli pindarici e così mi è affiorato alla mente un parallelo, con i gioielli.

Non sono particolarmente amante di ammennicoli e bijoux, ma il gioiello antico mi affascina: la perizia dell’artigiano, l’arte del saper fare con le mani, unita alla conoscenza dei segreti di lavorazione delle materie più preziose come oro e pietre. Galeotta fu per me una mostra piccola e sfavillante allestita qualche anno fa al Museo Diocesano Carlo Maria Martini: solo un nuovo spunto per approfondire la conoscenza di Milano e della sua storia.

Ritorniamo a noi: Amuchina e gioie. Ogni epoca ha avuto i suoi rimedi, efficaci o meno, contro le epidemie che talvolta potevano diventare davvero preziosi. Mi riferisco ai gioielli profumati, articoli che, specialmente tra XV e XVI secolo, contribuiscono ad accrescere il ruolo di Milano nella produzione di oggetti suntuari. La città meneghina è stata un centro importante nella produzione di articoli di lusso: gli orafi erano parte di una corporazione ricca e potente che accentrava il grosso delle sue attività produttive, con residenze e laboratori, nella contrada degli Orefici, a pochi passi dal Duomo. Ancora oggi la toponomastica restituisce le suggestioni del passato: via Orefici, accanto alle vie Spadari, Speronari e Armorari, resta come sbiadita testimonianza di quella grandezza.

Quella passata era una società in cui l’odore doveva giocare un ruolo fondamentale, presente e persistente in ogni momento della vita quotidiana. Non ci si lavava spesso e possiamo immaginare quali miasmi allietavano le più grandi città d’Europa, Milano tra esse. Di conseguenza veniva attribuita molta importanza a quei profumi e essenze che potevano apportare un po’ di sollievo al naso, come una ventata di aria fresca. Più prossimi alla persona stanno questi profumi più diventano efficaci, ed è così che dal XIII secolo, negli inventari di tutta Europa, compaiono i gioielli profumati: bracciali, anelli, collane o bottoni.

Le fogge e tipologie sono le più varie e spesso si ricorre all’impiego di sostanze odorose che riescono a essere modellate e montate nel gioiello accanto a elementi in oro e preziosi. I ricettari dell’epoca riportano indicazioni per la lavorazione del muschio, sostanza secreta dai maschi del mosco (Moschus moschiferus), piccolo ruminante cugino del cervo, per marcare il territorio. Molto amata era anche l’ambra grigia, prodotto odoroso dell’intestino del capodoglio, ma anche la secrezione estratta dalle ghiandole perianali dello zibetto. L’idea non è tra le più invitanti, ma queste essenze vengono usate in profumeria fino in tempi recenti. Opportunamente trattate, le paste venivano modellate in grani e infilate in collane, o inseriti nei cosiddetti “pomander”. Il nome deriva dal francese pomme d’ambre, “pomo d’ambra” e indica un gioiello apribile in grado di ospitare all’interno grani odorosi e di sprigionare profumo come un piccolo diffusore. Stringente è la somiglianza con il turibolo, il brucia incenso usato nella liturgia cattolica.

Pomander, XVII sec. Victoria and Albert Museum

La funzione principale era quella di diffondere profumo, ma a diverse sostanze si attribuiva il potere di disinfettare e purificare l’aria, trasformando quindi questi oggetti di lusso in rimedi ritenuti efficaci contro la diffusione di pestilenze, da tenersi vicino, quasi fossero amuleti incrostati di filigrane e smalti. Doni preziosi da regalare e regalarsi, must have della stagione 1630, specie se si voleva scampare al contagio.

Di queste zoglie resta poco, complice la facilità di dispersione di oggetti che potevano essere rapidamente alienati, fusi e smembrati senza lasciare traccia. Resta la loro presenza negli inventari ereditari o in quelli che registrano le doti nuziali, con descrizioni talvolta molto dettagliate del singolo pezzo di oreficeria, ma che non possono certamente competere con la presa diretta data i ritratti, dove i committenti si mettono in posa sfoggiando l’abito migliore e le gioie di famiglia, spesso molto più eloquenti di un moderno 730.

Bibliografia: P. Venturelli, Gioielli e gioiellieri milanesi, Milano, 1996